[:it]Difficilmente si ritrova una così profonda identificazione tra un artista e la propria opera. O meglio, a
conoscere di persona Luca Gastaldo, si avverte una spontaneità, schiettezza ma anche semplicità e
riservatezza, che abitano un animo puro benché travagliato e innegabilmente tormentato –delle cui cose di
primo acchito non ci si era accorti.
Il linguaggio artistico di Luca Gastaldo colpisce per la naturalezza con cui riesce ad entrare in contatto con lo
spettatore e a far vibrare le corde dell’emozione e dell’incanto.
Non disdegnando la lezione di grandi maestri del passato come Mario Sironi, Giovanni Fattori e Kaspar
David Friedrich, pur essendo per certi versi un anacronista, assolutamente fuori dagli stereotipi di pittura
attuali, con i suoi soli 32 anni Gastaldo è pittore d’innegabile potenza espressiva.
Neoromantico in un’accezione non certo decadente, ha la poesia e la grazia di parlarci della luce e del suo
contrario. L’artista ci prende per mano e ci introduce in questi paesaggi dell’anima rarefatti e impalpabili,
talvolta spettrali talvolta gentili. C’è un rimando alla memoria e a quello che la nostra mente fa affiorare di un
ricordo rielaborandolo incoercibilmente.
La pittura di Luca è talmente vibrante di spirito romantico, da indurre quasi a credere che il paesaggio
raffigurato sia il soggetto e non l’oggetto dell’osservazione. Un passo di un romanzo di John Berger –forse
non a caso anche critico d’arte- ci riporta quasi identica la stessa suggestione: “Cominciò con un piccolo
poggio, poco più in alto e a settentrione del campo dove stavo rastrellando il fieno. Su questo poggio c’erano
tre peri abbandonati, due ricoperti dal fogliame e uno con il legno grigio, senza foglie e morto. Dietro di essi,
cielo azzurro con grandi nuvole bianche.
Questo piccolo angolo di paesaggio –che prima di allora non avevo mai veramente notato- catturò il mio
sguardo e mi piacque. Mi piacque come può piacere un certo viso che vedi passare per la strada,
sconosciuto, persino insignificante, ma in qualche modo gradevole per quanto suggerisce di una vita vissuta.
Subito dopo ebbi l’impressione di essere osservato. Per un istante pensai che sulla collinetta ci fosse
qualcuno, oppure che un ragazzo si fosse arrampicato sui peri. L’albero morto era fiancheggiato dai due
alberi vivi. Eppure lì non c’era nessuno.
Quando un uomo sorprende un animale o viceversa, la traiettoria del loro sguardo esclude
momentaneamente tutto il resto. La situazione era identica, tranne che tra l’animale e l’uomo c’è di solito una
parità di presenza, mentre in questo caso ero consapevole della disparità. Io ero meno presente dell’angolo
di paesaggio che mi stava osservando.”
Dal fondo nero del bitume, dall’aspetto più recondito dell’animo, l’artista procede per sottrazione, togliendo
all’oscurità e forse anche al dolore dell’uomo, per recuperare stralci di luce inaspettati.
di Bianca Maria Rizzi
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